Diversi paesi europei devono far fronte ad un crescente numero di richiedenti asilo. Tra il 2014 e il 2016 il numero di persone con status di rifugiato che risiedono in un paese dell’Unione Europea è quasi raddoppiato, passando da 1 a 1,8 milioni. Nello stesso periodo, il numero di domande presentate al fine di ottenere tale status sono state 2,6 milioni, una cifra senza precedenti. In questo scenario, una politica che promuova l’integrazione economica dei rifugiati mediante un rapido inserimento nel mondo del lavoro è di grande importanza.
In un recente articolo intitolato: “(The Struggle for) Refugee Integration into the Labour Market: Evidence from Europe”, gli economisti Francesco Fasani, Tommaso Frattini e Luigi Minale presentano un’analisi molto dettagliata dei risultati ottenuti da parte di rifugiati, nativi, migranti UE e migranti non UE sul mercato del lavoro in diversi paesi Europei. I rifugiati provengono da situazioni molto difficili, sono stati esposti a violenze, conflitti, persecuzioni e sono stati costretti a subire una migrazione indesiderata e non pianificata. Ciò significa che mentre i paesi ospitanti possono selezionare i migranti economici in base alle loro caratteristiche e all’offerta di lavoro, lo stesso non accade per i rifugiati. Questi ultimi sono pertanto un gruppo sociale particolarmente difficile da integrare nel mercato del lavoro.
Guardando alla la distribuzione per età si nota ad esempio che i migranti economici tendono ad essere più giovani rispetto ai rifugiati e sono anche più istruiti. Mentre tra i rifugiati solo il 24% presenta un’istruzione terziaria, tale quota è pari al 26% tra i migranti economici. Tale divario aumenta ulteriormente con riferimento alle persone con istruzione secondaria inferiore, dove la quota per rifugiati è pari al 38% mentre quella dei migranti economici è pari al 42%.Un ulteriore aspetto che può essere molto importante nel favorire l’integrazione nel mercato lavorativo è la conoscenza della lingua del paese ospitante. A tale riguardo i migranti economici presentano una miglior conoscenza anche in ragione del fatto che possono selezionare il paese ospitante in base alle loro competenze linguistiche. Lo stesso non si può dire per i rifugiati.
Nel grafico riportato in alto vengono riassunti alcuni indicatori relativi ai risultati occupazionali di migranti economici e rifugiati. Rispetto ai migranti economici, i rifugiati presentano un più alto tasso di disoccupazione (16% vs 14%), una minor percentuale di lavoratori con un’occupazione qualificata (22% vs 26%), una minor quota di soggetti tra il 10% più ricco della popolazione più ricca (3% vs 7%) e una maggior quota tra il 10% più povero (17% vs 15%). Nel complesso i rifugiati sono quindi un gruppo sociale particolarmente vulnerabile.
Un approccio utilizzato da diversi paesi Europei (ad esempio Svezia, Danimarca, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia e Regno Unito) per far fronte a questa vulnerabilità consiste nel disperdere i richiedenti asilo e rifugiati in diverse aree del paese. L’intento è prevenire la formazione di enclave etniche. Tuttavia, i risultati del lavoro di Fasani, Frattini e Minale suggeriscono che l’essere dispersi può anche avere effetti negativi, poiché limita la possibilità di affidarsi a reti di co-cittadini o parenti per trovare un’occupazione. La scarsa mobilità geografica, inoltre, riduce ancor di più le possibilità di lavoro. All’opposto, quando i rifugiati iniziano a trasferirsi in città più grandi, gli effetti negativi dell’essere “dispersi” si riducono. In questo senso lo studio in esame offre alcuni spunti per un ripensamento delle politiche di accoglienza.