Negli ultimi anni l’Europa è stata interessata da un forte afflusso di rifugiati e migranti. Tra il 2015 e il 2016 oltre un milione di persone ha raggiunto l’Unione Europea e per varie ragioni, tra cui conflitti politici, aumento della popolazione e cambiamento climatico, possiamo ipotizzare che i flussi migratori in ingresso saranno destinati ad continuare. Il futuro economico e politico dell’Europa dipenderà, quindi, da come essa sarà in grado di gestirli.
Quali possibili miglioramenti ci suggerisce lo scenario economico e politico in cui i migranti sono accolti? Di quali cambiamenti necessita l’Europa per affrontare le sfide future?
Una visione d’insieme sull’impatto politico ed economico dell’afflusso di richiedenti asilo e rifugiati in Europa è data da un recente studio pubblicato sulla rivista Economic Policy.
Per stabilire il grado di integrazione dei rifugiati nei paesi ospitanti è necessario comprendere come questi ultimi si integrano nel modo del lavoro e con quali difficoltà. A tale scopo lo studio analizza come variano le possibilità di occupazione dei migranti, distinguendo tra migranti economici (chi migra per ragioni strettamente economiche) e rifugiati (chi migra per sfuggire a persecuzioni di diversa natura) sin dal loro arrivo in Europa. Il campione preso in considerazione comprende individui tra i 25 e i 64 anni che non prestano servizio militare e che non sono studenti a tempo pieno. I dati sono stati estrapolati dalla European Union Labour Force Survey del 2008, una vasta indagine campionaria su base familiare che fornisce risultati trimestrali sulla partecipazione al lavoro dei residenti europei. I risultati sono riassunti nel grafico in alto.
Il grafico riporta sia la probabilità di impiego dei migranti economici rispetto ai nativi, che quella dei rifugiati rispetto ai nativi sin dall’anno di arrivo. Come ci si aspetta, le possibilità di entrare a far parte del mondo del lavoro sia per i migranti che per i rifugiati aumentano con il passare del tempo.
Ma ciò che cattura l’attenzione è la differenza tra il tasso di occupazione dei nativi e quello dei rifugiati, soprattutto durante i primi tre anni dall’arrivo. Infatti, il gap tra la probabilità di trovare un’occupazione dei secondi rispetto ai primi (a parità di genere, età e altre caratteristiche socio-demografiche) è del 50% più bassa. Lo stesso non vale per i migranti economici, il cui gap occupazionale è solo del 10%.
Una delle ragioni che spiega la difficile integrazione dei rifugiati nel mercato del lavoro è il lungo periodo necessario per esaminare le richieste d’asilo, aggravato dall’indecisione dei paesi ospitanti riguardo alla durata del periodo di permanenza. L’incertezza sulle possibilità di restare per un periodo lungo in quel determinato paese fa sì che gli immigrati siano meno incentivati a conoscere e ad imparare tutto ciò che serve, in primo luogo la lingua, ad integrarsi nella nuova paese e di conseguenza nel mondo del lavoro.
Proprio per questo un rifugiato a cui è offerta inizialmente solo la protezione temporanea ma poi prolunga la sua permanenza per un periodo molto lungo ha una probabilità di trovare un lavoro e di conseguenza un salario più bassa rispetto ad un rifugiato che ottiene il soggiorno permanente sin da subito. La politica del paese ospitante necessita quindi di regole precise che definiscano la durata della permanenza, accompagnate da interventi di politica attiva per coloro i quali ottengono lo status di rifugiato o il soggiorno permanente.